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dimecres, de maig 28, 2008

Un’insurrezione quieta e urbana





di Rotafixa* (da Alias-il Manifesto)



Le città saranno salvate da ciclisti, giardinieri urbani, hackers e biofuelers, tra le poche categorie oggi a saper inventare un nuovo futuro. Tesi stravagante, può darsi. Ma esposta seriamente e con argomentazioni che non possono essere liquidate con un’alzata di spalle. A sostenerla è Chris Carlsson nel suo libro Nowtopia, uscito ad aprile in Usa e ora in giro per il mondo con l’autore. Carlsson è noto per la sbrigativa e non del tutto esatta - per sua stessa ammissione - definizione di «inventore della Critical Mass», il movimento mondiale di gente in bicicletta che rivendica anche per sé le strade intasate da automobili.


Quando hai scoperto l’importanza del «tempo autorganizzato» per raggiungere scopi radicalmente differenti dal «lavora, compra, paga, crepa»?


Ho aiutato a far partire la rivista Processed World nel 1981, e ci siamo resi conto subito che per molti di noi il «vero lavoro» iniziava una volta finito ciò che ci pagava. La passione e il desiderio di fare lavori come scrittura, organizzazione, teatri di strada, musica, storia, filosofia erano forti e il lavoro pagato non faceva altro che toglierci il tempo per il nostro
lavoro importante. Certo bisognava comunque avere soldi per affitto e cibo, quindi rubavamo tempo e risorse ai lavori pagati per poter svolgere il lavoro che ritenevamo importante. Nowtopia è cresciuta grazie a questi 25 anni d’esperienze
e di sensibilità.


E trovi che stia effettivamente succedendo qualcosa? Intendo qualche cambiamento nella concezione di «impegno».


Il concetto di «esodo» così come descritto da Virno e Hardt/Negri è uno strumento concettuale molto utile per capire cosa sta succedendo. Invece di rimanere in impieghi deludenti, la gente sta cominciando a lasciare il lavoro appena può. Ma non sanno dove andare, quindi invece di tentare di trovare significato e utilità nel lavoro pagato, danno vita a nuovi tipi di iniziative e progetti: molti nell’ultimo decennio, ma anche due o tre generazioni dopo la seconda guerra mondiale la gente si metteva assieme per fare del lavoro visto come espressione della loro completa umanità, per affrontare i veri problemi: quelli ecologici o della vita quotidiana. Ma tutto ciò può solo essere fatto sotto il loro controllo, secondo i loro termini, con persone liberamente scelte e in modi che decidono loro. In altre parole, non come un lavoro.



Nel tuo libro parli spesso dei lavoratori come epicentro e fulcro del cambiamento. Ma in tutto il mondo la «working class» ha paura e si sposta a destra, si chiude. Di che classe parli, quante ce ne sono?


Ho una definizione molto ampia della «working class» che racchiude chiunque lavori per uno stipendio o un salario. La mia discussione sulla classe, che serve in parte per smontare
il mito della «middle class», prova a enfatizzare come il nostro lavoro comune produce il mondo che ci opprime tutti, in vari modi. I flussi e riflussi delle politiche elettorali hanno parecchie spiegazioni. Non mi sorprende che molti impiegati che vedono la loro vita scivolare nella globalizzazione e nella ristrutturazione possano abbracciare programmi di destra che promettano stabilizzazione e protezione delle loro vite. È una menzogna, ma la voglia di sicurezza e tranquillità è molto forte, ed è un aspetto che i radical non sono riusciti a indirizzare bene. In Nowtopia descrivo attività già in corso, che pongono la base sociale e tecnologica per una vita post-capitalistica, molto probabilmente largamente post-petrolio.

Non c’è nessuna certezza che questi sforzi riescano e, anche se diffusi, siano sufficienti a cambiare la vita sul pianeta. Ma sono un punto di partenza molto importante, un luogo dove le persone sono già occupate a riappropriarsi del loro tempo e sapere tecnologico, dirigendo l’apparato della vita moderna verso nuovi obiettivi che siano in linea con la crisi ecologica, con la crisi di significato, con il crollo delle classi e delle comunità, e con la voglia di un nuovo tipo di vita sociale: animati da uno scopo condiviso, basato su un nuovo popolo con un forte senso di quanto meglio la vita possa essere in confronto ad ora.


Insisto: in 25 anni qualcosa sarà pur successo.


Il più grande cambiamento negli ultimi 25 anni e stato il crollo di qualsiasi componente della sinistra tradizionale e la ristrutturazione del lavoro in modo tale che nessuno possa contare su un impiego che possa durare a lungo. Sono tutti precari ora, non c’è più quella stabilità associata a molti impieghi. Il lavoratore raramente resta nello stesso posto per più di un paio d’anni al massimo. Ne deriva il crollo di qualsiasi senso di storia, la trasmissione di esperienze e di vite si perde, le relazioni sono transitorie e temporanee. Una delle conseguenze più evidenti è ciò che io chiamo «la più grande accelerazione nella storia umana». Nessuno va a vedere l’amico se non ha mandato un paio di mail o di telefonate prima della visita. Nessuno ha più tempo per la spontaneità. A ciò si oppongono le iniziative «nowtopiche» che descrivo: sforzi deliberati per ristabilire comunità attraverso attività pratiche spesso rivolte a necessità di base, quali trasporto, carburante, cibo, comunicazioni.

In queste comunità neonate vediamo l’inizio di una ricomposizione della «working class»
in termini estremamente generici, basato sul vero lavoro che si svolge al di fuori della rapporto salariale.



Passiamo alla bici e al movimento personale in città, «nowtopismo» che tu indichi come uno dei fattori di «rivoluzione urbana». È difficile pensare che davvero il concetto di «esodo» possa attecchire in un paese dalla mentalità devastata come il nostro. In Italia c’ è la più alta concentrazione di automobili del mondo, e la macchina è vista come un membro della famiglia. Le esperienze che descrivi possono essere utili per guarire da questa schiavitù mentale, o ci riuscirà solo la tempesta economica in arrivo?


Non ho mai parlato di un movimento di massa che possa diventare maggioranza. Sto descrivendo tentativi, nella maggior parte di invisibili comunità, di rifiuto pratico della vita in termini capitalistici, che vengono appoggiate da relativamente piccole quantità di persone sul momento.


Ma potrebbe essere un inizio di cambio culturale con la rapida espansione della Critical Mass in giro per il mondo, l’incremento dell’uso della bicicletta nelle zone urbane e l’emergere dei legami fra il «cool» e l’andare in bicicletta. Potrebbe significare che l’ossessione predominante (e pesantemente finanziata) per le macchine troverà la sua sfida nell’alternativa della bicicletta.


Tu citi anche i «biofuelers» come gruppi in grado di creare cambiamento. Ma cresce la consapevolezza che usare l’agricoltura come fonte di carburante può portare a disastri alimentari di portata mondiale.


I «biofuelers» di cui parlo sono attivisti che stanno cercando alternative di piccola scala. Sono estremamente critici sull’invasione aziendale dei «biofuels» e si oppongono all’approccio capitalistico che sta contribuendo alle crisi alimentari, anche se non ne sono la sola causa. Nel mio capitolo sui «biofuels» faccio una distinzione netta fra «biofuels» sostenibili, basati sui rifiuti locali, olio vegetale e provviste locali di rifiuti tossici e la produzione di etanolo e di carburanti provenienti da materie alimentari guidate da grosse
multinazionali come la Archer Daniels Midland o la Chevron.


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